Studio in “hosting”, linea telefonica comune e provvigione sulle pratiche passate: questi gli elementi-chiave che, nel caso di specie, hanno legittimato la misura disciplinare. E la durata dello “stop” va calibrata sul “vulnus” al decoro della professione
(Sezioni unite civili, sentenza n. 26007/08; depositata il 30 ottobre)
Scatta il reato di lesioni colpose: è il responsabile della sicurezza che deve controllare in modo pressante i dipendenti, evitando che cedano alla tentazione di sottrarsi alle norme antinfortunistiche
(Sezione quinta, sentenza n. 39888/08; depositata il 23 ottobre)
  • Non risulta determinante la presenza di interessi professionali, consistenti in un’attività lavorativa meglio retribuita, nella decisione dei coniugi sul luogo di residenza familiare. La scelta deve dare priorità alla serenità dell’intero nucleo.
    Cass. civ., Sez. I,  Sentenza  3 Ottobre 2008 , n. 24574
Il tentativo obbligatorio di conciliazione con il gestore, previsto dalla legge istitutiva dell’Agcom, non opera quando si controverte di situazioni soggettive derivanti da rapporti che non riguardano quello di utenza telefonica
(Sezione seconda, sentenza n. 25853/08; depositata il 27 ottobre)
La domanda di risarcimento ex articolo 89 Cpc per la frase ritenuta ingiuriosa va proposta solo nei confronti della parte. Che, se condannata, può rifarsi sul difensore quando ricorrono le condizioni
(Sezione seconda, sentenza n. 23333/08; depositata il 9 settembre)
 
 
Manca il rapporto di subordinazione, ma il sanitario è «ausiliario necessario» dell’ente: il suo inadempimento professionale fa scattare la responsabilità verso il paziente, che ha natura contrattuale
(Tribunale di Modena, sezione prima civile, sentenza n. 1271/08; depositata il 25 agosto)

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE

Sentenza 16 aprile – 19 maggio 2008, n. 20023

(Presidente Marini – Relatore Bricchetti)

Svolgimento del processo

1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Milano confermava la condanna (alle pene di anni due di reclusione e L. 8 milioni di multa) di A.P., ritenuto responsabile del reato continuato di cui agli articoli 73, comma 1, e 80, comma 1, lettera f), del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 per avere, in Cugliate Fabiasco “fino al 9 settembre 1993”, in tempi diversi e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, ceduto a B.C. e a S.G., persone tossicodipendenti, quantitativi di eroina al fine di ottenere dalle medesime prestazioni sessuali.

La Corte territoriale riconosceva la circostanza attenuante della lieve entità dei fatti, prevalente sulla menzionata circostanza aggravante e sulla recidiva reiterata infraquinquennale.

Osservava la Corte che l’affermazione di responsabilità dell’imputato era fondata essenzialmente sulle dichiarazioni rese da B.C. e S..G. .

Quest’ultima, in particolare, aveva riferito di avere assunto eroina per circa otto anni e di avere, per un certo periodo, frequentato con assiduità l’abitazione dell’imputato, il quale, consapevole della sua situazione di tossicodipendenza, “la manteneva nell’uso della droga, ricevendo in cambio prestazioni sessuali”.

In particolare all’udienza dibattimentale del 29 ottobre 1992 la donna aveva dichiarato: “se volevo avere la roba, mi dovevo anche concedere”; “lui mi dava i soldi ed io gli davo qualche altra cosa”.

I giudici di appello definivano le affermazioni della G.come “lineari, circostanziate, puntuali, reiterate, non contraddittorie”.

Nell’atto di appello l’imputato aveva, tuttavia, sostenuto che le dichiarazioni della G. configurassero un fatto “totalmente diverso” da quello contestatogli (non era vero, in altre parole, che vi erano state cessioni di eroina; si era semmai trattato di consegne di denaro affinché la donna acquistasse la droga).

I giudici di appello replicavano che l’imputato era stato comunque posto nelle condizioni di difendersi dalle accuse rivoltegli dalla donna.

2. Avverso l’anzidetta sentenza, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, con atto personalmente sottoscritto, chiedendone l’annullamento ed affidando le proprie doglianze a tre motivi.

2.1. Con il primo motivo ribadisce la nullità della sentenza di primo grado, ex articolo 522 comma 1 c.p.p., per inosservanza della disposizione di cui al comma 2 dell’articolo 521, che impone al giudice di disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero se accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio o nell’eventuale atto di suppletiva contestazione.

Rileva il ricorrente:

– che era stato tratto a giudizio per avere, in tempi diversi e con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, ceduto eroina alla B. ed alla G.;

– che, nel corso del dibattimento del processo di primo grado, il pubblico ministero gli aveva contestato la circostanza aggravante di cui all’articolo 80, comma 1, lettera f), del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, ipotizzando che le cessioni fossero finalizzate ad ottenere prestazioni sessuali da persona tossicodipendente;

– che il Tribunale lo aveva condannato, dando tuttavia atto, nella motivazione della sentenza, che il fatto era “ben più articolato” rispetto a quello contestato (l’imputato accompagnava la G. nei luoghi di spaccio e la ragazza acquistava la droga con il denaro che l’uomo le forniva; P. custodiva lo stupefacente e consegnava alla ragazza soltanto la dose che avrebbe consumato);

– che una “migliore definizione” dell’imputazione gli avrebbe consentito di “articolare temi di prova a discarico” sull’esistenza “presso la propria abitazione” di “luoghi” ove occultare e custodire l’eroina, sull’esito negativo della perquisizione domiciliare subita, sull’effettiva possibilità “data la sua età” di accompagnare “in auto la G. addirittura a *****” e sull’effettiva disponibilità delle somme di denaro che la donna aveva asserito esserle state “fornite”.

2.2. Con il secondo motivo lamenta l’erronea affermazione della sussistenza della citata circostanza aggravante, sostenendo che finanziare l’acquisto della droga e custodirla non integrerebbe l’offerta o la cessione che caratterizza la circostanza.

2.3. Con il terzo motivo denuncia la mancanza o la manifesta illogicità della sentenza impugnata in relazione all’affermata attendibilità delle dichiarazioni della G., sostenendo che la Corte di merito si sarebbe limitata a generici riferimenti al “disinteresse” ed alla “credibilità” della testimone.

Motivi della decisione

3. Il ricorso non é meritevole di accoglimento.

3.1. Il primo motivo del ricorso é infondato.

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, le norme che disciplinano le nuove contestazioni, la modifica dell’imputazione e la correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza (articoli 516-522 c.p.p.) hanno lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato.

Ne consegue che le stesse non devono essere interpretate in senso rigorosamente formale ma con riferimento alle finalità alle quali sono dirette; in altre parole, non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto da modificazioni che pregiudichino le possibilità di difesa dell’imputato (cfr. ex plurimis Cass. I, 5 maggio 1994, Coturni, RV 198365).

La nozione strutturale di “fatto”, contenuta nelle disposizioni anzidette, va, dunque, coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere soltanto le effettive lesioni del diritto di difesa.

In altre parole, i concetti di identità, diversità e novità (rectius, alterità) del fatto rivelano il loro contenuto in funzione del principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice), posto essenzialmente a tutela del diritto di difesa (nel senso che “risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi”: cfr. Cass. VI 22 ottobre 1996, Martina).

Ciò premesso, non resta che osservare come, nel caso in esame, la contestazione suppletiva, ritualmente formulata nel corso del dibattimento, sia servita ad addebitare all’imputato di avere “utilizzato” la droga per ottenere i favori sessuali delle due donne, mentre le dichiarazioni della G. , assunte nel rispetto del contraddittorio, abbiano determinato quella maggiore “articolazione” dei fatti di cui l’imputato si duole ingiustificatamente, atteso che nulla gli avrebbe impedito, se soltanto lo avesse voluto, di replicare, nell’ambito della contesa dibattimentale, alle accuse mossegli dalla donna.

Affermazioni, quelle rese dalla G. , che, tra l’altro, erano servite a chiarire che non si trattava dello spacciatore di eroina pronto a trarre anche profitto “sessuale” dalla clientela femminile; si trattava, piuttosto, di un uomo, avanti negli anni, che sfruttava in modo diverso la situazione di debolezza della donna, “gestendola” mediante mirate consegne di denaro da utilizzare per specifici acquisti di droga che rappresentavano, per lui, la chiave per raggiungere il reale obiettivo.

3.2. Il secondo motivo del ricorso é infondato.

È vero che l’articolo 80, comma 1, lettera f), del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 delinea la circostanza aggravante in termini di “offerta” o “cessione” al fine di ottenere prestazioni sessuali da parte di persona tossicodipendente.

È altrettanto vero, però, che l’imputato manteneva la disponibilità materiale della droga, acquistata con il suo denaro, proprio per graduare offerte e cessioni delle singole dosi in funzione delle pretese sessuali. Si tratta, dunque, di condotta rientrante a pieno titolo nel paradigma normativo e che esprime proprio ciò che il legislatore intendeva reprimere con la maggiore severità collegata alla previsione di una circostanza aggravante, vale a dire lo spregevole approfittamento della condizione fisica e psicologica di particolare vulnerabilità di una persona tossicodipendente.

3.3. Il terzo motivo del ricorso è inammissibile.

Si tratta di censure non consentite nel giudizio di legittimità.

In particolare, la Corte di cassazione non può sindacare la valutazione del giudice di merito sull’attendibilità della persona offesa ove sul punto sussista, come nel caso in esame, un’adeguata motivazione basata sull’estrema chiarezza della deposizione, definita “lineare, puntuale, circostanziata” (sull’esclusione della applicazione alla deposizione della persona offesa delle regole di cui all’articolo 192, commi 3 e 4, c.p.p., come per qualsiasi altra testimonianza, v. ex plurimis Cass. III, 18 ottobre 2001, Panaro, RV 220362).

A questo si aggiunga che i motivi sono privi del requisito della specificità, consistendo nella generica esposizione della doglianza senza alcun contenuto di effettiva critica alla giustificazione.

4. Al rigetto del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Addio Margherita Hack

giugno 29, 2013

 

Lesione non patrimoniale le insistenti telefonate al lavoro e dai parenti per convincere il cliente a restituire il prestito: l’istituto paga e viene segnalato al Garante

Sproporzionata la sanzione espulsiva: l’abbandono del posto di lavoro tipizzato dal Ccnl deve comunque essere valutato alla luce della «giusta causa
Sproporzionata la sanzione espulsiva: l’abbandono del posto di lavoro tipizzato dal Ccnl deve comunque essere valutato alla luce della «giusta causa»

La Corte costituzionale cancella la disposizione, introdotta nel 2009, che limita i colloqui tra i condannati sottoposti al regime previsto dall’art. 41-bis con i difensori.

(Corte Cost., 20 giugno 2013, n. 143)

Con la sentenza in rassegna la S.C. ritorna sulle questioni in tema di tema di riassunzione, stabilendo che tale ipotesi viene a configurarsi anche quando venga proseguito un giudizio relativo ad una citazione originariamente notificata ma non iscritta a ruolo.

(Cass. Civ. 11 giugno 2013, n. 14661)

Sette anni e interdizione perpetua dai pubblici uffici! La pena è più alta di un anno rispetto a quella richiesta. Il reato contestato è concussione e prostituzione minorile.

 

L’ordinanza-ingiunzione per il pagamento di una sanzione amministrativa deve essere adottata e notificata all’interessato entro cinque anni dalla violazione.

In materia di sanzioni amministrative consistenti nel pagamento di una somma di denaro, l’autorità amministrativa adotta una ordinanza-ingiunzione, notificandola all’interessato all’esito del procedimento previsto dall’articolo 18 della Legge n. 689/81.

La questione che si pone al riguardo è entro quale termine deve essere notificata la detta ordinanza-ingiunzione.

L’articolo 18, infatti, non prevede espressamente alcun termine.

Sul punto, sono state formulate essenzialmente due soluzioni:

  • la prima, è l’applicazione del termine di novanta giorni previsto in generale per la conclusione dei procedimenti amministrativi dalla Legge n. 241/90;
  • la seconda, è l’applicazione del termine di cinque anni previsto per la prescrizione delle sanzioni amministrative dalla Legge n. 689/81.

 

La recente giurisprudenza ha ritenuto ammissibile un provvedimento cautelare ex articolo 700 del Codice di procedura civile per ottenere la cancellazione dell’iscrizione ipotecaria eseguita in assenza dei presupposti previsti dalla legge e, quindi, palesemente illegittima.

In tal senso si è espresso il Tribunale di Bari con ordinanza del 7 febbraio 2012 nell’ambito di un ricorso ex articolo 700 del Codice di procedura civile.

Nel caso di specie, il ricorrente aveva chiesto al Tribunale di Bari la cancellazione di una iscrizione ipotecaria richiesta dall’Agente della Riscossione ex articolo 76 del D.P.R. n. 602/1973, in quanto il credito era inferiore a € 8.000 (si trattava in particolare di crediti tributari).

L’Agente della riscossione aveva eccepito l’inammissibilità del ricorso ex articolo 700 del Codice di procedura civile, sostenendo che la cancellazione dell’ipoteca può essere disposta solo con una sentenza definitiva o un provvedimento definitivo, cioè immodificabile, e non con un provvedimento cautelare quale è quello pronunciato all’esito del ricorso ex articolo 700 del Codice di procedura civile (ciò si evincerebbe dall’articolo 2884 del Codice civile).

Tale eccezione di inammissibilità non è stata accolta dal Tribunale di Bari in quanto i provvedimenti emessi in via cautelare possono comunque acquistare efficacia definitiva quando sono idonei ad anticipare gli effetti della sentenza di merito.

Tanto è vero che il giudice provvede anche sulle spese di lite e l’instaurazione del giudizio di merito è meramente facoltativa.

Quanto al merito, il Tribunale richiama l’articolo 76 del D.P.R. n. 602/1973 secondo cui “L’agente della riscossione può procedere all’espropriazione immobiliare se l’importo complessivo del credito per cui si procede supera complessivamente 8.000 euro” (oggi 20.000 euro).

Conseguentemente, poichè l’ipoteca di cui all’articolo 77 del D.P.R. n. 602/1973 costituisce un atto preordinato all’espropriazione, essa deve necessariamente soggiacere agli stessi limiti per questa stabiliti dal precedente articolo 76, nel senso che non può essere iscritta se il debito del contribuente non supera il limite degli 8.000 euro (oggi 20.000 euro). In tal senso si è già espressa la Cassazione, con la sentenza n. 5771/2012.

Quanto al periculum in mora, il Tribunale richiama l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la tutela d’urgenza del diritto di credito può essere riconosciuta solo nei seguenti casi:

  1. quando si sia in presenza di un pregiudizio economico, dipendente dalla lesione del diritto fatto valere in giudizio, non integralmente riparabile dal futuro risarcimento pecuniario del danno, come accade qualora dal mancato adempimento della obbligazione pecuniaria derivi, quale conseguenza immediata e diretta, lo stato di insolvenza o il fallimento del creditore;
  2. oppure nel caso di impossibilità o estrema difficoltà di determinare esattamente la misura del risarcimento ove gli effetti pregiudizievoli dovessero persistere nel tempo, sì da non poter assicurare la reintegrazione della posizione giuridica che si assume lesa

Nella caso dell’iscrizione ipotecaria, si rientra nella seconda ipotesi perchè tale pregiudizievole certamente ostacola l’accesso al credito per l’esercizio dell’attività d’impresa (nella specie il ricorrente era un imprenditore), arrecando così un danno grave e difficilmente riparabile in termini monetari, stante la sostanziale impossibilità di dimostrarne l’entità.

Il Tribunale ha quindi accolto il ricorso, ordinando all’Agente della riscossione di cancellare immediatamente l’ipoteca a sua cura e spese.

Ad ogni modo, si segnala anche un opposto orientamento di altra parte della giurisprudenza che, invece, ritiene inammissibile il ricorso d’urgenza ex articolo 700 per la cancellazione (o riduzione) d’ipoteca.

Ciò  essenzialmente perchè il provvedimento adottato d’urgenza è suscettibile di essere stravolto dalla pronuncia di merito e, quindi, di per sè, non ha il carattere della definitività necessario ai sensi dell’articolo 2884 del Codice civile per ottenere la cancellazione o riduzione dell’ipoteca.

Sostiene questa giurisprudenza che, trattandosi di un provvedimento interinale, esso è ontologicamente inidoneo ad incidere con efficacia di giudicato su posizioni soggettive di natura sostanziale (Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 28 dicembre 2007, n. 27187; Cassazione, sentenza del 8 febbraio 2011, n. 3124).

Orbene, poichè la formalità della cancellazione produce effetti estintivi di tipo definitivo, cosa succederebbe se il provvedimento d’urgenza venisse successivamente revocato o comunque modificato?

Il creditore subirebbe un danno irrimediabile, perdendo in maniera definitiva la garanzia per il credito vantato, senza possibilità di poter recuperare il grado di ipoteca ormai cancellata stante il generale principio di non reviviscenza delle garanzie reali e/o personali, effetto questo non consentito pre i provvedimenti interinali ((Tribunale di Roma, sentenza del 3 giugno 2004; Tribunale di Roma, sentenza del 7 luglio 1998; Tribunale di Mantova, sentenza del 19 aprile 2007; Tribunale di Trapani, sentenza del 11 aprile 2006; Tribunale di Bologna, sentenza del 24 dicembre 2003).

Fonte: http://networkedblogs.com/Mr7yV

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